Che cosa vuol dire essere Coach? Essere o non essere può diventare una domanda importante.
Quando Timothy Gallway, famoso allenatore di tennis, scrisse nel 1972 The Inner Game of Tennis, non avrebbe mai ipotizzato di veder prosperare cosi tanto le sue tesi fino ai giorni nostri. In realtà egli si dimostrò particolarmente interessato ai processi di apprendimento dei suoi giovani atleti e a tutti quegli aspetti “interni all’individuo” che oggi appassionano moltissimo chi lavora nel mondo nella Crescita e nello Sviluppo del Potenziale Umano.
Gallway, attraverso l’osservazione e la sua esperienza, teorizzò che in un atleta e nella sua prestazione, “l’avversario esterno” (l’avversario in carne e ossa) fosse molto più debole “dell’avversario interno” (la condizione psicologica e motivazionale dell’atleta stesso) e che tale debolezza fosse il vero responsabile della mancanza di performance ottimali.
Il punto di partenza per essere un Coach
Nelle sue osservazioni Gallway si trovò a registrare l’esistenza di “risorse bloccate” da un “sé critico e razionale” che lasciava poco spazio al “sé realizzatore e naturalmente competente” unico responsabile di performance eccellenti.
Timothy osservò che alcuni tennisti durante gli allenamenti riuscivano ad avvicinarsi all’eccellenza, mentre quando scendevano in campo per la gara peggioravano fortemente le performance.
Cosa succedeva negli allenamenti? Cosa succedeva in gara? Ma ancora… come gestire gli obiettivi? Come focalizzarsi sull’obiettivo desiderato? Come vincere la competizione?
Queste furono le domande che diedero il via a quella che in seguito fu chiamata la disciplina del Coaching; una pista nuova, un nuovo modo di intendere i comportamenti ma soprattutto di intendere la possibilità di conseguire la felicità.
Una prima risposta riguardò la strategia di gestione dell’attenzione. Infatti, da subito si tentò di spostare il focus dell’atleta dal pensiero di “far bene” (spesso accompagnato da giudizi critici) a un concetto di stampo molto più ampio, oserei dire olistico, dove l’atleta potesse riconoscere prima e particolarmente la persona lavorando molto alla sua consapevolezza, poi il campione.
Da questi primordiali studi e da queste prime intuizioni si sono sviluppati in questi ultimi 40 anni, nuovi processi e modelli mirati a generare consapevolezza e finalizzati alla definizione e realizzazione di obiettivi personali e di gruppo.
Il sopravvento di questi nuovi modelli culturali, molti dei quali ispirati dalla Psicologia Positiva, incominciarono a proporre nuovi concetti e nuovi modi di intendere “l’unicità dell’individuo”.
Ecco, quindi, una metafora da ricordare: “l’essere umano simile ad una ghianda che al suo interno racchiude tutte le potenzialità per trasformarsi ed evolvere in uno stupendo albero da quercia”.
Ad una “Psicologia del passato”, conservatrice e interessata prevalentemente ai disturbi, alla malattia e ai scompigli mentali, man mano si iniziò ad affiancare una Psicologia focalizzata sullo star bene, sulla realizzazione di sé, sull’ottimizzazione delle Risorse Personali.
Essere un Coach o fare il Coach
Oggi siamo arrivati a una più completa definizione del metodo del Coaching attingendo dai grandi lavori di Maslow per l’autorealizzazione, Seligman e Peterson per le Potenzialità e la concezioni della felicità, Deci e Ryan per la teoria dell’autoderminazione (Self Determination Theory), Bandura per l’autoefficacia, Csikszentmihalyi (si pronuncia Ciks-sent-mi-hai) per la teoria del Flow e tanti altri.
Il Coaching “di ultima generazione” è dunque una metodologia processuale/relazionale, una partnership (tra un Coach ed il suo Cliente) centrata sul miglioramento delle performance e sul raggiungimento di obiettivi di maggior valore attraverso la scoperta e lo sviluppo delle Potenzialità personali.
Nel Coaching l’allenamento e la valorizzazione delle Potenzialità permettono di inquadrare l’essenza stessa del Coaching (come sostenuto anche da J. Whitmore): “accompagnare la persona verso il suo massimo rendimento attraverso un processo autonomo di apprendimento”.
Il fine ultimo del rapporto di Coaching, quindi, non è suggerire consigli o somministrare ricette prescrittive al Cliente bensì elaborare, monitorare e realizzare programmi e obiettivi costruiti secondo la metodologia del Coaching.
La definizione degli obiettivi e la determinazione dei piani d’azione utili a conseguirli, permettono al cliente di organizzare (insieme al suo Coach) un percorso nuovo, per certi versi alternativo e creativo, dove il conseguimento dell’auto-sviluppo e della felicità personale sono sostenuti dall’efficacia e dalla qualità della relazione Coach/Cliente.
Essere Coach di se stessi
In questi ultimi anni come team leader del gruppo Prometeo Coaching, ma soprattutto come docente della Scuola di Coaching, ho cercato di sostenere la differenza tra la figura del Coach Professionista da altre figure professionali.
In effetti basta osservare il “Mercato della Formazione” per scoprire che esiste una estrema confusione sulla figura del Coach e sulla disciplina del Coaching.
La grande confusione (generata anche da fini speculativi e commerciali) di sovente porta ad assimilare il Coaching ad altri metodi (o tecniche), come il Counseling, la PNL e la Psicologia o a generare un mix d’offerta a discapito della chiarezza, della professionalità e del “servizio al Cliente”.
E’ importantissimo ricordare (per rispettare un certo approccio morale ed etico) che il Coaching ha una sua precisa collocazione culturale e che quest’ultima è molto rigorosa. Spesso non bastano alcune giornate di formazione per meglio chiarire alcune sottili differenze con altri metodi e altre discipline.
Il Coaching, come accennato, è innanzitutto un metodo e non è una tecnica.
La parola metodo deriva dal greco methòdos, il cui significato è “inseguire, andar dietro per cercare, per investigare”.
Secondo il vocabolario della lingua italiana la parola metodo significa “modo ordinato e conforme a certi principi, d’investigare, di esporre il vero, di governarsi nell’operare”; più strettamente “Modo di operare per ottenere uno scopo”
Non vi sono dubbi, quindi, che il Coaching sia un metodo nel senso più stretto del termine essendo volto alla ricerca, scoperta e valorizzazione delle Potenzialità Personali in vista di conseguire un obiettivo.
Per essere un Coach non bisogna essere altro che un Coach
Il Coach, inoltre, non è assolutamente uno Psicologo né uno Psicoterapeuta e anche se molti Psicologi si stanno avvicinando alla disciplina del Coaching, è indispensabile tenere ben separate queste figure professionali ed evitare ogni sovrapposizione.
E’ sufficiente dire che il Coach non cura e non si occupa di alcun disagio psicologico; il Coach (desidero affermarlo a chiare lettere) si occupa di persone sane!
Il lavoro che svolge il Coach è quello di far si che le persone siano poste nelle condizioni ottimali affinché possano sfruttare al meglio le loro specifiche Potenzialità al fine di migliorare la qualità della loro vita e di raggiungere la felicità attraverso il conseguimento di risultati di maggior valore.
Il Coach “moderno” è un cercatore, un allenatore di Potenzialità, un “catalizzatore del cambiamento”. Nello specifico, infatti, l’intervento di un Coach è volto a stimolare, promuovere e presiedere la crescita del Cliente stesso, rispettando la sua unicità.
Il Coach dunque non aiuta nessuno (motivo per il quale il Coaching non può essere annoverato tra le relazioni d’aiuto), bensì opera per promuovere l’autosviluppo del proprio Cliente.
Il Coach non si sostituisce al Cliente, ma attraverso il metodo, la tecnica e le sue competenze, diviene il tramite mediante il quale il Cliente riesce ad esplorare, individuare, scegliere e realizzare i piani di azione per tradurre le proprie mete in obiettivi ben formulati.
Il Coach, quindi, non fornisce soluzioni, non prescrive ricette magiche, non ha obbiettivi preordinati ai quali sottoporre i propri Clienti, non insegna, non manipola egli mira a favorire, nel proprio Cliente, un incremento di autoconsapevolezza e responsabilità rispetto alle sue competenze, alle sue esperienze pregresse, alla sua creatività, ai suoi punti di forza, affinché individui autonomamente le proprie soluzioni e consegui la felicità che desidera.
Il Coach assolve “soltanto” la funzione di “presidio”. Egli stimola il proprio Cliente a individuare e chiarire i propri obiettivi, sostenendolo nella progettazione di un Piano d’Azione che gli permetta di conseguire gli obiettivi nei tempi che desidera.
Oggi essere un Coach in Italia significa aver superato la fase pionieristica e accettare le difficoltà di un mercato in piena espansione.
Essere Coach, quindi, vuol dire muovere la giusta critica costruttiva a ciò che ci viene proposto dai paesi anglofoni perché troppo intriso di pragmatismo, schematismo e tecnica per un popolo latino come il nostro che si basa ancora (fortunatamente) sul bisogno di relazionarsi efficacemente.
Essere un Coach vuol dire smettere di barricarsi dietro Associazioni e Corporazioni per rivolgere la propria attenzione verso l’onestà, l’innovazione e la coerenza; l’unione di noi Coach sarà possibile solo quando si smetterà di dividerci in caste, in Coach associati e non associati, quando scopriremo che tutto questo ai Clienti non interessa.
Essere Coach significa essere creativi e innovatori, rivolgere la propria attenzione alla costruzione di Brand efficaci, consapevoli che il Coaching ha ancora mille possibilità di essere utilizzato, sviluppato e affermato.
Essere o non essere un Coach significa essere coerenti col metodo, significa pensare, operare e vivere da Coach… ma questa è solo la mia visione delle cose…
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