“per essere veramente forte,
ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile”
-Nietzsche
Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere un interessante articolo di Claudio Magris sull’egoismo e l’egocentrismo.
L’egoismo di per sé non è qualcosa di negativo se la sua finalità è di salvaguardare la sopravvivenza di ognuno di noi. Esso diventa deleterio nel momento in cui degenera in una forma di autodistruzione. Per Magris, però, ciò che è realmente in grado di compromettere la nostra esistenza non è tanto l’egoismo, quanto l’egocentrismo. Mentre quello, oltre che inevitabile, è in alcuni casi anche alquanto comprensibile (quale dipendente non spera durante la propria vita professionale in un avanzamento di carriera?); questo, di contro, pretende di “mettere al centro del mondo” i propri problemi.
Nelle relazioni più o meno complesse, che caratterizzano il mondo aziendale, accade che il clima organizzativo sia spesso inficiato proprio da un senso di malessere, di infelicità, dovuto soprattutto alla convinzione che ci sia un’incapacità di fondo dei propri colleghi, del proprio capo, dell’azienda, ecc. di apprezzare le “infinite ricchezze” di cui si è dotati. Ancora una volta la causa di questa alterazione degli equilibri delle relazione è l’egocentrismo. Quale soluzione può essere adottata? Magris, ricordando Nietzsche, ci suggerisce che “per essere veramente forte, ogni io deve rendersi conto di essere un’entità trascurabile”.
La diffusione in azienda dell’egocentrismo è di fatto un problema che pur rientrando nella norma, può ostacolare l’esperienza quotidiana delle persone in quanto tende ad intaccare la componente emotiva della loro vita lavorativa.
Una delle conseguenze a cui possiamo fare riferimento è l’incapacità di riuscire a focalizzare la propria attenzione. Questo aspetto è un problema per i leader aziendali che spesso peccano di scarsa intelligenza emotiva in quanto non solo non riescono a focalizzarsi su se stessi, ma neppure sugli altri. La conseguenza di tale gap influenza l’abilità dei leader laddove fossero chiamati a progettare le strategie aziendali o ad incentivare l’innovazione dell’organizzazione aziendale, nonché a gestire le stesse.
Siamo così sicuri che vediamo le cose che ci circondano per come esse sono? O forse è vero l’opposto, e cioè che le vediamo per come siamo noi?
Il più delle volte accade la seconda eventualità.
Un leader, secondo Goleman, deve riuscire in maniera equilibrata a prendere consapevolezza di tre focus, ovvero quello su se stessi (una sua assenza lascerebbe il leader senza timone), quello sugli altri (l’assenza di consapevolezza di codesto focus lascerebbe il leader all’oscuro) ed infine quello sul mondo circostante (l’assenza di questo focus può lasciare il leader accecato).
Come è possibile imboccare questa strada?
Non serve un leader talentuoso, ne serve uno, invece, diligente ovvero una persona che abbia la volontà di esercitare i circuiti del cervello deputati all’attenzione.
Il Business Coaching, a questo riguardo, nel breve-medio termine può essere un valido supporto per aiutare il leader ad esercitare la suddetta volontà e, soprattutto, a sviluppare l’attenzione che poi, a ben guardare, è anche una delle principali abilità della leadership.
I contesti lavorativi sono sempre più complessi a tal punto che il premio Nobel Simon afferma che l’informazione ha proprio la caratteristica di consumare l’attenzione del ricevente ed è per questo che l’economista affermava che “un’abbondanza di informazioni crea povertà di attenzione”.
Se la complessità diventa nel quotidiano la regola, l’instabilità è di contro il metodo. Ed è per questo che un leader focalizzato è la figura che meglio di altre può, in un contesto così imprevedibile, rimettere al centro della propria azione di leadership l’attenzione. Solo così potrà dirigerla verso quelle circostanze che più di altre si ritiene ne abbiano bisogno e nei tempi ritenuti più opportuni.
Il Coaching può essere una soluzione per migliorare le prestazioni e cambiare le abitudini dei leader verso un futuro desiderato in cui, una volta imparato a padroneggiare l’attenzione, si avrà anche la capacità di controllare dove se stessi e l’organizzazione aziendale vorranno prioritariamente focalizzarsi. Una recente ricerca ha evidenziato, infatti, come esista una certa correlazione tra la divagazione mentale dei manager e la produttività lavorativa degli stessi. In altri termini il risultato della ricerca non è così scontato in quanto si contraddice l’idea, alquanto generalizzata, che la creatività tragga beneficio proprio da una qualche forma di divagazione mentale. È vero invece il contrario. La felicità individuale è spesso inficiata proprio dalla tendenza a non focalizzarsi su temi lavorativi; l’attenzione è il più delle volte distolta da questioni di carattere personale. Più in generale se la felicità del manager è funzione delle esperienze che si vivono in un determinato contesto della propria vita, nella specifica vita lavorativa, il Coaching può concretamente contribuire a conseguire la felicità focalizzando l’attenzione mentale del manager sulle relazioni con i colleghi ed i progetti su cui si sta lavorando. Se l’obiettivo venisse conseguito, questo, a ben guardare, spiegherebbe, per dirla con le parole di Zamagni, “perché l’avaro non riesce ad essere felice: perché è tirchio prima di tutto con se stesso, perché nega a se stesso quel valore di legame che la messa in pratica del principio di reciprocità potrebbe assicuragli”.
Tag: azienda, Business Coaching, egocentrismo, egoismo