Globalizzazione, ipercompetizione, interconnessione, sono i nuovi scenari con i quali i processi decisionali aziendali ed i nuovi leader dovranno confrontarsi.
In una economia sempre più globalizzata, è ormai chiaro che i paesi emergenti come Cina, India, Sudafrica, Emirati Arabi Uniti, saranno la fonte dai quali si alimenterà la crescita del prossimo futuro.
Un problema non sottovalutabile, riguarda proprio la seguente questione: di fronte ad un’economia che mostra tanto potenziale di crescita, impellente sarà la ricerca di nuovi leader per il prossimo futuro?
Sembra scontato, ma è noto che non avrebbe alcun successo l’ipotesi di identificare un leader in un paese e chiedergli di mettere in pratica le sue competenze in un’economia emergente.
Se l’esportazione di beni materiali in contesti culturali, sociali e politici completamente differenti è oggetto di attente analisi, non meno delicata è la questione della resportabilità degli intagible assets come la capacità di leadership in capo ad una valente risorsa umana. Il talento potrebbe proprio trovare nelle peculiarità di un paese straniero quei limiti che gli impedirebbero di generare valore per l’impresa al servizio della quale lavora. Valore che, invece, lo ha distinto nell’azienda del suo paese di origine.
Ecco allora che una risorsa in grado di esprimere capacità di leadership può essere solo un leader che conosce il mercato dal quale proviene.
Per quanto possa sembrare scontato, una leadership, per avere successo in una qualunque economia, anche un’economia emergente, richiede l’attivazione di una serie di relazione con i propri collaboratori. Queste relazioni cambiano da paese a paese, perché diverse sono proprio le peculiarità culturali. Sono esse che fanno da sfondo all’organizzazione aziendale.
Linda Hill, esperta di leadership, ritiene che in questo caso si possa parlare di “mentalità collettiva implicita”, un concetto che si ispira a una parola di origine Zulù: “ubuntu” e che può essere pressoché tradotta liberamente nel seguente modo “io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti”.
Ma a ben guardare anche quando diciamo nel quotidiano, in più di una occasione, di voler “realizzare noi stessi”, ci siamo mai chiesti che cosa vogliamo dire veramente? Si tratta solo di un riferimento alla direzione che vogliamo imprimere al nostro modo di vivere o di operare in ambito professionale?
Se proviamo a riflettere, non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che noi, presi nella nostra singolarità, siamo non un “io” ma un “tu”, ovvero siamo quello che siamo in quanto relazione. Se questo è vero, come penso non possa essere altrimenti, nel momento in cui ci concentriamo a realizzare noi stessi, stiamo affermando qualcosa di più profondo: realizziamo la nostra umanità proprio perché in relazione alla comunità nella quale viviamo, nella quale lavoriamo, nella quale professiamo la nostra fede, nella quale condividiamo le nostre passioni, nella quale esprimiamo la nostra capacità di leadership, ecc.
In quest’ottica il termine “ubuntu” assume un significato più pregnante, più profondo, perché, in un’era dove imperante è la globalizzazione, i leader in qualunque ambito dovessero essere chiamati ad esprimersi, saranno il riscatto di una umanità che per decenni è stata sequestrata dal profitto quale unico parametro economico in grado di misurare la capacità di un’azienda, di una nazione, di un individuo nel diritto di realizzarsi nel contesto in cui vive.
Se allora il talento non può essere oggetto di esportazione in un paese emergente, al fine di replicare un qualche modello di leadership che ha avuto successo nel paese sviluppato, vale la pena lavorare, invece, non solo sulla ricerca del leader in loco, ma anche sintonizzarsi nell’idea che esercitare la leadership significhi proprio essere in grado di aiutare gli altri a diventare un po’ più leader di se stessi, o meglio a tirare fuori quella umanità che appartiene a loro, a mettere in circolazione un’energia che lasci un segno indelebile nell’umanità dell’altro.
Messo in questi termini il discorso ci porta subito a dover fare un’affermazione solo in apparenza provocante: la capacità di leadership si annida in ogni collaboratore. C’è una leadership diffusa in un’organizzazione e colui che la guida come leader può “condurre da dietro”. Ebbene si! Un leader non è molto diverso da un pastore che, in fondo al suo gregge, ne ha la visione complessiva. Questa sua posizione lo pone anche nella condizione di avere una visione collegiale della leadership nel senso che, in riferimento alla vision trasmessa dal leader-pastore, di volta in volta i vari collaboratori potranno imprimere questa o quella direzione al gruppo senza che ci sia un formale atto di comando da parte del leader.
Un leader-pastore che viva il suo ruolo in funzione di una leadership collegiale, può in questo modo defilare le sue responsabilità?
La risposta c’è e la dà la figura del vero pastore: egli lascerebbe che le sue pecorelle si disperdessero tra i pascoli?
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