La più alta politica del Coaching è la non politica
Il Coaching non è conosciuto per la politica che attua.
Aziende, formatori, Scuole di Coaching, esperti e finanche Associazioni di Categoria si sforzano di darne una corretta definizione; molti sono concentrati sul chiarire gli scopi, piuttosto che definirne l’approccio politico.
Tutto questo non deve sorprendere. L’argomento è a dir poco complesso e può assumere connotati molto diversi in ragione della cultura di Coaching cui si appartiene.
Del resto quasi tutte le professioni d’aiuto tendono ad avere una “visione politica” del proprio agire e del modo di gestire le relazioni.
Nell’odierna accezione psicologica e sociale, la parola “politica”, ha a che fare con il concetto di “potere” che si esprime soprattutto nella somministrazione delle “regole” e nel “controllo delle regole”. In altre parole in un sistema relazionale politicizzato vengono dettati i principi, i tempi e le norme che tendenzialmente anticipano i bisogni dell’individuo (o della comunità).
E’ fuori di dubbio che questo potere, che ha come fine morale “la concettualizzazione, l’elaborazione e il perseguimento del bene”, si riferisce alle manovre, alle strategie e alle tattiche (volontarie o inconsce), attraverso le quali il potere viene condiviso, ceduto, esercitato, cercato e ottenuto.
Non fanno eccezione le politiche insite nelle relazioni d’aiuto. Esse gestiscono il locus del potere decisionale da cui partono le conclusioni che regolano, indirizzano e condizionano azioni, pensieri, sentimenti ed emozioni.
Il Coaching differisce da tutto questo poiché si prefigge scopi del tutto diversi; in effetti, mira all’indipendenza e all’integrazione della persona e fa, di questo modus operandi, un caposaldo del metodo.
Ma cerchiamo di approfondire…
Ho sempre considerato il Coaching una relazione d’aiuto atipica. L’elemento che caratterizza maggiormente un processo di Coaching non è rappresentato dall’aiuto regolamentato offerto al Cliente, ma dall’allenamento delle sue specifiche potenzialità.
In una relazione processuale di Coaching, infatti, il professionista “abdica” qualsiasi esercizio del potere (tipico delle relazioni d’aiuto) puntando, con fiducia, alla totale autonomia del Cliente.
Vale la pena specificarlo ancora una volta: un professionista del Coaching non opera in campo patologico, egli non ha alcun tipo di conoscenza o esperienza in merito.
Del resto nel Coaching lo scopo non è di risolvere un problema con l’aiuto offerto dal “consultore”, ma di permettere alla persona di crescere e svilupparsi attraverso obiettivi e piani d’azione efficaci ed efficienti.
La relazione persegue un modello generativo, spostando il proprio focus sul “piacere creativo di fare da sé”.
Se questa tesi apparisse troppo vaga, posso sforzarmi di renderla più precisa…
Il metodo del Coaching fa affidamento sulla spinta individuale verso la crescita, la cura di sé, l’adattamento al contesto e l’utilizzo delle potenzialità personali. L’autodeterminazione implica protagonismo attivo, partecipazione diretta, autorganizzazione, libertà di pensare, di decidere, di agire e di assumersi ogni responsabilità.
Fare Coaching, quindi, non significa “fare” qualcosa alla persona, né convincerla a fare qualcosa per sé; si tratta invece di affiancare la persona in un percorso di crescita e sviluppo auto-riferito e auto-generato.
Chiariamolo ancora una volta: i consigli e le ricette miracolose nel Coaching (quello serio) non esistono! L’approccio “guresco” prescrittivo e paternalista non ha nulla a che fare con il Coaching professionale.
Al contrario, tutto parte dalla profonda convinzione che ogni individuo è unico e irripetibile. La persona possiede un’innata tendenza allo sviluppo che può ottenere attraverso l’utilizzo e l’allenamento delle potenzialità personali. Queste forze, presenti in maniera inconfutabile in ogni organismo vivente, possono essere inficiate da vari ostacoli, dalla cattiva conoscenza di sé, dalla scarsa cura di sé, dall’ignoranza tecnica e metodologica di definire, progettare, articolare obiettivi e piani d’azione ben costruiti.
Questa tendenza auto-realizzativa, seppur condizionata negativamente, non può essere eliminata del tutto, se non attraverso la distruzione dell’individuo stesso.
Per comprendere il segreto di queste forze e rilevare il mistero del benessere secondo il Coaching, possiamo rifarci al tema della felicità (mutuandolo dalla psicologia positiva). Esso rappresenta il fine ultimo di ogni processo di Coaching incardinato sull’allenamento e la valorizzazione delle potenzialità personali.
Nel Coaching, infatti, si parte dall’assunto che le potenzialità (intese come un tratto caratteriale disponibile, ma non utilizzato) sono osservabili in situazioni diverse e rintracciabili costantemente nel corso del tempo. Esse sono presenti in ogni individuo e il loro utilizzo sprigiona emozioni positive. Nel Coaching una potenzialità ben esercitata e allenata, ad esempio, può produrre prestigio, successo, avanzamento di carriera, riconoscimento personale, maggiori guadagni.
E’ proprio in questo passaggio (a mio avviso fondamentale) che il Coaching si allontana dalle relazioni d’aiuto. Esso riesce a domandarsi: quale deve essere il clima che rende possibile l’autorealizzazione?
Esistono almeno tre atteggiamenti relazionali:
1. Autenticità.
Si rifà apertamente all’approccio rogersiano conosciuto come “approccio centrato sulla persona”. Più il Coach è se stesso nel rapporto con il Cliente (e non si cela dietro il suo “potere del sapere”), maggiori sono le possibilità che la persona possa crescere e svilupparsi in maniera autonoma e costruttiva.
2. Stima e accoglienza incondizionata.
Questo comporta una completa disponibilità del Coach a sospendere ogni giudizio. Il potere di scelta è lasciato nelle mani del Cliente; si crea così un’atmosfera costruttiva e non costrittiva.
3. Empatia
Si riferisce alla capacità da parte del Coach di vivere e restituire con estrema precisione le proprie emozioni. E’ un allenamento lungo e complesso che passa attraverso lo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva del Coach.
Da un punto di vista politico, prestando grande attenzione alle emozioni, il Cliente migliora la conoscenza di sé creando nuove occasioni per assumersi responsabilità di scelta.
Alla luce delle riflessioni fatte, è facile constatare come il Coach diventi “levatrice” del cambiamento e non colui che lo genera.
Infine, sia chiaro
nel Coaching l’autorità politica è posta nelle mani del Cliente.
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