La concentrazione rilassata è un’abilità fondamentale per migliorare ogni aspetto della performance.
Molti anni fa, agli albori della mia carriera, ebbi modo di fare delle approfondite ricerche sul “Gioco Interiore del Coach”. Prima di conoscere Timothy Gallwey ignoravo l’argomento e molto probabilmente appartenevo a quella schiera di professionisti convinti che la performance dipenda esclusivamente da quello che si conosce e che si sa fare. Metodo, tecnica, strumenti e abilità rappresentavano il focus del mio impegno e della mia prestazione.
Eh già, un Coach (e anche un formatore di Coach come nel mio caso) può essere vittima dei suoi stessi pensieri. Pensieri che possono assumere la veste d’interferenza capace di imbrigliare la naturale propensione verso il “fare”; un’intromissione inconsapevole capace di abbassare notevolmente i risultati e la qualità delle relazioni professionali.
Certo, “spogliare” la mente dal controllo cosciente, cercando di escludere ogni pensiero, non è per niente semplice all’interno di una relazione d’aiuto; tuttavia chi si cimenta nel Gioco Interiore scopre e apprezza l’arte della Concentrazione Rilassata più di ogni altra abilità.
Ciò che rende incredibilmente interessate la Concentrazione Rilassata è il risultato che produce. Quel senso di gratifica che arriva con il minimo sforzo; quello stato di grazia denso di significato che molto spesso ho accostato all’esperienza autotelica del Flow.
Il Gioco Interiore è una filosofia di vita. Al pensiero strategico, all’approccio risolutivo e meccanicistico basato sull’ipercontrollo, si oppone la naturalezza del fare e la distrazione del pensiero cosciente.
Che cos’è l’Inner Game (in poche parole)
I principi dell’Inner Game, enunciati per la prima volta negli anni ‘70 da Timothy Gallwey, hanno permesso ad atleti, aziende, manager e persone “comuni”, che desideravano migliorare la qualità della loro vita, di sviluppare strategie di pensiero vincenti, attraverso approcci non giudicanti nei loro confronti e nei confronti degli altri. Una semplice e geniale intuizione che nel Coaching si rivela strumento d’elezione per soddisfare il bisogno di Autorealizzazione.
L’Inner Game (letteralmente Gioco Interiore) rappresenta principi, metodi e strumenti per imparare a uscire da schemi mentali non funzionali al miglioramento della performance.
Su questo è utile spendere qualche parola in più.
Secondo Gallwey ogni persona gioca due partite: una esteriore (giocata con l’avversario reale, il rivale, l’obiettivo estrinseco) e una interiore (con la propria paura, l’insicurezza, le distrazioni che ci impediscono di esprimere il nostro potenziale). La migliore comprensione del Gioco Interiore permette alla persona di conseguire il successo attraverso un’attenzione equilibrata di entrambi i giochi.
Alla base del Gioco Interiore ci sono 3 principi:
- La consapevolezza senza giudizio
- La fiducia in se stessi
- L’uso della scelta libera e consapevole.
L’obiettivo dell’Inner Game
L’obiettivo dell’Inner Game è trovare il modo per esprimere la propria performance partendo dall’assunto che il potenziale naturale di ogni individuo è imbrigliato dalle sue stesse interferenze. Partendo da questa breve definizione possiamo affermare che il concetto è applicabile in qualsiasi attività umana: e nella nostra trattazione anche a quella del Coach Professionista.
Esempi di Inner Game nel Coaching Professionale
Un Coach sa riconoscere perfettamente quei giorni in cui tutto va bene; la sessione risulta fluida, piacevole e costruttiva. Si percepiscono movimento, produzione, spostamento verso la meta. Lo stesso Coach, al contrario, conosce quando tutto va male e non si approda a nulla. La sessione è inconcludente, densa di aneddoti, ma priva di focus e finalità. C’è ripetizione, stasi, orientamento al problema e molto spesso anche fatalismo.
Nella mia esperienza di Coach ho avuto a che fare con colleghi che si arrabbiavano molto dopo un’attenta auto-valutazione. La circostanza era intrisa di giudizi, pessimismo ed emozioni negative. Ho visto bravi professionisti tornare sui libri, riprendere in mano le basi filosofiche del metodo, interrogarsi sulla qualità del proprio ascolto, sulla personale capacità di usare la domanda maieutica, sulla corretta definizione degli obiettivi; tornare in altre parole a interrogarsi sulle conoscenze, competenze e abilità… parlando in modo innaturale con loro stessi.
I neo Coach fanno ancora più difficoltà. Molti cercano strenuamente di migliorare le performance attraverso il controllo, il pensiero logico, la meccanica della sessione, la comprensione logica di quanto sta accadendo. Entrano in gioco le dinamiche necessarie al cambiamento di linguaggio, della cessazione del potere sull’altro, della formulazione della domanda e dell’ascolto attivo.
E’ di certo l’abitudine a un cattivo apprendimento. A un’atavica ostinazione alla valutazione del proprio deficit, all’osservazione di ciò che è manchevole, al tentativo ostinato di “capire” prima di “agire”.
Il problema del Pensiero
Qual è il risultato? In molti pensano troppo. Sì, hai capito bene: il problema è pensare. Pensare a cosa fare, quando e perché. Insistere sul pensiero analitico, usare il giudizio verso se stessi.
Fermati a riflettere… Quante volte ti è capitato di cadere nel tranello di pensare durante la sessione e inevitabilmente attivare il dialogo interiore rispetto alla tua performance?
Insomma, il Coach che pensa troppo, che parla con se stesso, che attiva il giudizio verso ciò che sta facendo, inserisce inevitabilmente una interferenza nella relazione di Coaching. Anche chi si loda in modo effusivo e autoreferenziale o pensa all’efficacia e alla correttezza della domanda, al rispetto del modello di Coaching, alle proprie intuizioni o al tentativo di confutarle, commette un errore imperdonabile. Insomma, il dialogo interiore, positivo o negativo che sia, è il problema.
La vera indole del pensiero è di mettere in dubbio il fare, le cui proprietà -spontaneità, autenticità, desiderio di imparare- superano le capacità di formarsi un’idea. In fondo pensaci i bambini per imparare a camminare s’impegnano e basta… non pensano a come si cammina, quando e perché; non valutano il gesto, l’eleganza o l’efficacia.
Come passare alla Concentrazione Rilassata
Il segreto è fare.
Quando Timothy Gallwey scrisse il suo primo libro, probabilmente non pensava che sarebbe stato un successo planetario. Dopotutto, scrisse solo di tennis dimostrando la possibilità di ottenere un rapido apprendimento. Allora perché tante persone anche al di fuori dello sport amano questo libro e continuano a scoprirne il profondo significato dopo cinquant’anni?
L’Inner Game, contiene lezioni importanti che possono essere applicate alle performance partendo dalla vita quotidiana. Per Tim (e per tutti quelli che apprezzano il suo genio) è tutta una questione di concentrazione rilassata. L’obiettivo dovrebbe essere quello di smettere di avere il dialogo interiore (o perlomeno incominciare a riconoscerlo). Si tratta di non pensare troppo ad ogni singola azione e dare libero sfogo a qualcosa di diverso.
Sospendere il Giudizio
Per superare quest’ostacolo e sfruttare la propensione al fare, bisogna smetterla di classificare immediatamente le azioni in “azioni buone” e “azioni cattive”, belle o brutte, utili o inutili, ma considerarle in modo neutrale. Perché il problema è che se le valutiamo scadiamo nell’auto-osservazione e ancor peggio in una probabile perdita di fiducia in se stessi. Bisogna evitare il ciclo negativo di azioni controllate, valutate e giudicate. Il rischio è di perdere fiducia nelle proprie capacità e rimanere indietro rispetto alle reali possibilità.
In questo senso è utile ragionare brevemente anche sul feedback positivo verso se stessi. Se si celebra se stessi per una buona azione, si tenderà a misurare la prossima rispetto ad un modello virtuoso, vincente ed efficace. Se le azioni successive non raggiungessero questo livello, anche questo avrebbe effetti negativi sulla fiducia in se stessi. Insomma, il Gioco Interiore si attiva ogni volta che c’è un “modello” e il conseguente “scarto dal modello”.
Il Coaching è una relazione da bar!
Questa è una frase che uso spesso durante la Scuola di Coaching per ridurre le interferenze didattiche generate dal desiderio di apprendere il metodo (di capirlo, usarlo, processarlo e giudicarlo). Molti ridono… quasi tutti, dopo un leggero stupore, riconoscono la facilitazione del pensiero e l’associazione con qualcosa che sanno già fare bene. Anche se la loro mente non è completamente distratta dal pensiero logico, è tuttavia focalizzata su qualcosa di semplice. Le performance nei primissimi role-play migliorano istantaneamente.
Nell’Inner Game è indispensabile creare una cultura in cui gli errori siano visti come una parte normale del gioco e non come qualcosa di positivo o negativo.
Coaching vocazionale: cosa significa in realtà?
Il Coaching è un’attività vocazionale.
Per sfruttare il fare vocazionale occorre comprendere alcuni passaggi anche riferibili all’Inner Game.
Per Coaching vocazionale intendo la dedizione appassionata a un preciso compito che soddisfa l’individuo in sé e per sé. Chi lavora con vocazione vive l’impegno professionale come un contributo a qualcosa di molto più alto del semplice esercitare un lavoro (rispettare regole, precetti e prescrizioni metodologiche). Per i Coach si tratta di qualcosa di magico: aiutare l’altro a fare…
Non sorprenderti. Ovviamente la parola “vocazione” è molto usata in ambito religioso. Il suo utilizzo si rifà al termine latino “vocatio” che significa “chiamata”, “invito”. Viene utilizzata soprattutto per indicare la “chiamata di Dio” ovvero la scelta di seguire religiosamente una chiamata divina.
Si parla di vocazione, in ambito non religioso, per indicare una tendenza innata; una caratterizzazione dell’individuo che lo porta più facilmente a fare alcune cose piuttosto che altre all’interno di uno speciale trasporto e un forte coinvolgimento. Fare Coaching su base vocazionale significa svolgere il proprio lavoro mossi da un trasporto interiore, al disopra della logica, del dovere, del giudizio… del pensiero giudicante. E’ un piacere che rimane nel fare, privo di giudizio metodologico che moltissime volte scivola nel puro godimento fine a se stesso.
Usare le forze del carattere
Se argomentiamo sul Coaching vocazionale è impossibile astenersi dall’utilizzo delle potenzialità personali (intese come forze del carattere). Una vocazione, infatti, si esprime attraverso atti concreti: azione, produzione, creazione, realizzazione.
Il Coaching s’impara facendolo e per questo motivo il più alto concetto di Inner Game non può prescindere dalla liberazione e dal migliore utilizzo del proprio potenziale.
Nel nostro caso è utile chiarire che il dottor Martin Seligman (il padre fondatore della Psicologia Positiva) sostiene che in sé e per sé la vocazione non produce felicità, divertimento e gratifica fin tanto che non viene espressa attraverso l’utilizzo di una personale e specifica potenzialità; in questo senso l’azione chiama in causa le potenzialità umane.
Queste vengono usate come strumenti di costruzione, apprendimento, gioia e divertimento.
L’espressione di una potenzialità, quindi, deve collegarsi con un mix di competenze, conoscenze e abilità legate al “fare” senza giudizio.
E’ significativo che un tale approccio generi uno stato di flusso (o, se preferite, stato di Flow); un vero e proprio stato di coscienza alterato (massimamente gratificante) in cui la persona è completamente immersa in quello che fa (senza giudicare quello che fa e come lo fa).
Il Coaching vocazionale parte dalla migliore comprensione dell’Inner Game, coinvolge le potenzialità personali e sfocia in una serie di atti concreti che per definizione richiedono, oltre alla gratificazione personale, un servizio reso all’umanità.
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