Chiedersi perché il Coaching funziona, è legittimo. Dare una risposta esaustiva pone un quesito abbastanza complesso.
Capire perché il Coaching funziona partendo dal principio.
Premessa: il Coaching funziona se eviti facilitatori, “aiutatori”, trasformisti, “guru”, venditori di fumo e soprattutto se riesci a schivare chi professa “il Coaching secondo me”.
Il Coaching è una competenza relazionale basata sul cambiamento.
Tutto parte da un presupposto specifico che incorpora una matrice “atipica”. La relazione si concentra sulla rinuncia volontaria da parte del Coach di ogni potere sul suo interlocutore; l’autonomia è un presupposto, mentre l’obiettivo finale è permettere al Cliente di migliorare le sue performance attraverso l’espressione del potenziale non utilizzato.
Lavoro meglio se sono io a volerlo fare, non se devo farlo.
Se lo voglio fare, è per me; se lo devo fare, è per gli altri.
La nostra motivazione dipende dalla libertà di scelta.
(John Whitmore)
Se partissimo da questa impostazione (rivoluzionaria per quanto attiene il cosmo delle relazioni d’aiuto), è facile capire perché già nel 2010, il Coaching veniva usato dal 93% delle migliori 100 aziende americane, dall’82% di quelle inglesi e nel 71% delle migliori aziende australiane. Il management aziendale richiede il Coaching perché lo giudica uno strumento essenziale, utile al cambiamento; chiede di essere sostenuto nel costruire una visione chiara del futuro e del proprio ruolo all’interno del progetto di sviluppo organizzativo.
Quest’aspetto si riflette anche negli studi scientifici intorno al Coaching e il numero dei Coach Professionisti a livello globale aumenta di anno in anno in maniera esponenziale.
L’appeal verso il Coaching, tanto per giustificare i risultati nel contesto mondiale, è dato anche dall’estrema misurabilità del metodo (un fatto molto gradito alle persone e alle aziende), nonché dall’assenza di qualsiasi controindicazione.
I Coach non sono tutti uguali ed è facile riconoscere chi millanta il titolo professionale.
E’ possibile riconoscere un vero Coach solo se è in grado di esibire un Attestato di Qualità e Qualificazione professionale in base alla legge 4/2013. Questo è ottenibile solo previa iscrizione a una Associazione di Categoria a sua volta inserita negli elenchi pubblici del Ministero dello Sviluppo Economico. Tali professionisti accettano un codice etico e di autoregolamentazione e si sottopongono volontariamente alla verifica delle competenze da parte di un soggetto super partes. Che c’è di male nel rispettare una legge dello Stato Italiano? Un Coach non dovrebbe essere un paladino dell’affidabilità, dell’onesta ed erogare al cittadino/utente servizi controllati e di qualità?
Perché il Coaching funziona e “il Coaching secondo me…” molto meno?
Il problema parte da una logica che mette in discussione i principi e la metodologia di base da parte di formatori senza scrupoli. Un grave errore se pensiamo alla “misurabilità” del metodo e ai benefici tangibili che le persone traggono alla presenza di una qualsiasi difficoltà orientata al futuro desiderato.
Il risultato della personalizzazione è un evidente abbassamento delle performance e la perdita di tratti distintivi che hanno caratterizzato il successo del Coaching come metodo e funzionamento.
Insomma, i risultati oggettivi che il Coaching può vantare vengono sfruttati “dall’industria del Coaching”.
Molti si sfregano le mani per “generare business” trasformando il Coaching in un “fritto-misto” che origina indiscutibilmente dal “Coaching secondo me”. E’ un modo per prendere le distanze dalle regole, cercando di persuadere più Clienti; un modo per eludere leggi e generare confusione.
Per far funzionare il Coaching, invece, è importante stabilire che:
- L’essere umano è unico e irripetibile ed è depositario di potenzialità non utilizzate;
- Consapevolezza, scelta, responsabilità, autonomia e fiducia, sono i pilastri su cui bisogna edificare obiettivi e piani d’azione auto-determinati;
- Il metodo è “stabile”, puntualmente replicabile e il Professionista lo utilizza rimanendo consapevole di avere un ruolo complementare;
- Il Coaching non può essere confuso con la PNL, la motivazione da palcoscenico e neanche con le logiche trasformiste, somatiche, olistiche e spirituali.
- Il Coaching favorisce la motivazione intrinseca e respinge la motivazione estrinseca (quella prodotta dall’attivatore “esterno” per intenderci);
- Il Coaching non ha nulla a che fare con la formazione, il marketing, il mentoring, la consulenza personale e/o aziendale…. e neanche con il posizionamento strategico, le maratone di New York, il controllo del peso e i gruppi organizzati con divise stile camerati.
Insomma, trasformare, personalizzare, deformare i presupposti del Coaching, riduce le performance e abbassa i risultati. Sarebbe bello misurare questa orda di saccenti guru sul campo, in presenza di un vero Cliente, di un vero obiettivo da conseguire.
A tal proposito c’è da essere ben consapevoli che:
- La PNL è una tecnica morta, ferma da anni, che riconosce anche dall’interno le proprie falle (la sua efficacia rimane aneddotica, mai riconosciuta scientificamente);
- Il Counseling ha dovuto subire l’onta di essere sconfessata dagli psicologi (per le sue continue sovrapposizioni con il benessere psicologico e la cura del disagio);
- La motivazione da palcoscenico (stile Anthony Robbins) produce più persone egocentriche che professionisti capaci di condurre vere sessioni di Coaching;
- Il marketing, le campagne aggressive con i 4 video da scaricare, le false recensioni sui finti libri best seller su Amazon, possono persuadere e coinvolgere solo coloro che hanno bisogno di credere che, dopo il corsetto, esista un “facile Eldorado” fatto di ricchezza, riconoscimento e affermazione professionale.
Il Coaching funziona se collocato fuori dalla logica del paradosso.
Quanto anticipato ci permette di sostenere che in Italia il Coaching professionale (quello vero) è in ritardo e viene miseramente confuso con altre attività. Visti i presupposti si tenta strenuamente di confonderlo, miscelarlo, abbinarlo con attività che hanno poco a che fare con un metodo veramente efficace. Ahimè, la logica del paradosso inquina l’offerta formativa, svilisce l’efficacia del metodo e inonda il mercato di professionisti frustrati e impreparati.
Ecco alcuni esempi tratti dal web da cui prendere subito le distanze:
- In alcuni siti viene spiegato il Coaching partendo da una esperienza soggettiva (senza aver mai frequentato un Corso di Coaching professionale);
- Si gestisce un’offerta per diventare Coach Professionista e velatamente si sostiene che il Coaching non funziona, le Associazioni di Categoria non esistono e che contano sono le cose che non capisci, ovvero, quelle che vengono riprogrammate a livello inconscio;
- Non vi è alcun riferimento alla Norma Tecnica UNI 11601/2015 sul Coaching e viene omessa o mal interpretata la legge 4/2013.
- Si copiano articoli, pubblicazioni, gruppi su Facebook e si parla male degli altri per avvantaggiare se stessi.
Risalire la vetta, capire quando il Coaching non funziona e compiere scelte corrette è molto difficile…
Nel settore ci sono tanti devoti del Marketing aggressivo, abituati a shakerare un po’ di Coaching modello GROW e tanta PNL… un po’ di Coaching e tanto “fitness delle emozioni”. Ci sono i formatori di crescita personale, quelli delle strategie di posizionamento strategico e quelli più miseri adepti del Mythoself e delle improbabili logiche di trasformazione personale. Ci sono quelli che copiano e che sostengono di essere copiati, quelli che chiudono l’attività per scelte di vita, salvo tornare dopo poco sulla scena con la stessa tiritera dei video, delle truppe cammellate e dei viaggi organizzati all’estero. Insomma, l’industria del Coaching si sforza di moltiplicare stranezze, paradossi e contraddizioni con l’obiettivo di ammaliare ignari Clienti.
Che cosa rimane del vero aiuto e del vero Coaching?
Be’ a mio parere rimane il Coaching professionale che dall’alto della sua reale efficacia, riesce, ahimè, a riempire le tasche di tanti pseudo-formatori di Coaching.
Il Coaching da sempre opera nello stato di realtà e ci suggerisce che senza una precisa “domanda” da parte del Cliente si rischia di sconfinare in pratiche strane al limite del bizzarro.
Pensate: in una ricerca statistica sulla mia attività professionale, inerente 200 clienti, ho avuto modo di riscontrare che:
- 110 persone hanno lavorato sul rafforzamento del ruolo professionale (avvio della professione, cambio del ruolo in azienda, miglioramento o sviluppo degli aspetti reddituali);
- 54 hanno posto problematiche inerenti le relazioni affettive (coniugali, genitoriali e di coppia);
- 36 si sono focalizzati sulla propria autonomia (cambiamento, miglioramento, consapevolezza emotiva, autenticità, scelte di vita in genere).
Tutte attività concrete, misurabili, equidistanti dal disagio e dal desiderio di misurarsi con una crescita personale fine a se stessa; un’incredibile concretezza di obiettivi collocati nel futuro in cui facilitatori, guru ed egocentrici formatori non avrebbero di certo sortito gli effetti desiderati.
Perché l’utilità del Coaching viene stabilita dai Clienti e non dai Formatori!
Nel Coaching anticipare e interpretare le esigenze del Cliente è un errore clamoroso e nella formazione di un Coach Professionista vige la stessa regola.
Prima di diventare Coach ed iscriversi al “miglior Corso di Coaching”, le persone sono pervase dalla “logica del deficit” e l’industria del Coaching ha imparato a sfruttare questa diffusa tendenza. Le persone vogliono cambiare, migliorare, acquisire strumenti per operare su se stesse e (soprattutto) sugli altri; questo viene sapientemente miscelato con le trasformazioni personali e i modelli avveniristici del Coaching fai-da-te.